Tutte le apps da avere se si ama il cinema (poche, ma buone!)

IMDB

Perché non usare i nostri smartphone anche per coltivare gli interessi che abbiamo e accrescere le nostre conoscenze? Io da quando sono entrata nel mondo “smart” (che non a caso significa “brillante, acuto”) cerco di sfruttare queste nuove frontiere anche per imparare qualcosa. E, vi assicuro, la necessità di sapere non è mai abbastanza.

La mia gioia, mista a stupore, ha toccato l’apice quando ho scoperto il cinema nelle apps. È vero, ancora sono poche quelle dedicate alla settima arte…ma comunque meritano, eccome. Tutte gratuite, tranne una (e capirete perché).

Le FONDAMENTALI.

1. IMDb Film & Tv

IMDb (acronimo di Internet Movie Database) è un sito web interamente dedicato al cinema, il portale cinematografico di Amazon.com che gestisce tutte le informazioni legate ai film, alle serie tv, ai videogiochi e a chi crea tutto questo. L’applicazione del suddetto sito, realizzata sia per smartphone che per tablet, è a mio parere anche meglio del sito stesso, con l’unica pecca della mancanza della lingua italiana, un problema tutto sommato relativo, secondo me. Per il resto, è davvero ottima: collegandosi al proprio account Facebook, Google o Amazon è possibile creare una propria lista desideri (“whishlist”) spuntando dall’elenco dei film tutti quelli che si desidera vedere. Inoltre appena si lancia l’app si trovano in evidenza i principali trailer (disponibili anche in HD) e le informazioni sui film più recenti o addirittura ancora in fase di post produzione. Sono anche disponibili moltissime foto dai set o dalle premiazioni in qualità 1280×720. In occasione degli Academy Awards 2015 è stata riservata una sezione dell’app dedicata ai premi principali del cinema (dagli Independent Spirit Awards ai Golden Globes) con un riepilogo dei vincitori, dei candidati e con uno splendido archivio fotografico. Imdb è molto ben costruita, soprattutto a livello grafico, e risulta più godibile nella visualizzazione in tablet da 7″ in su. La consiglio come app primaria per le informazioni, fondamentale per chi ad esempio gestisce blog o fan page dedicati al cinema. Di norma, le notizie su Imdb sono da ritenersi ufficiali perché inserite dalle produzioni stesse dei film. Quindi, è in sostanza quello che è l’ANSA per il giornalismo: necessaria.

2. Coming Soon Cinema

È l’app omonima del canale tv Coming Soon Television, purtroppo cancellato definitivamente nel marzo dell’anno scorso (sarò stata una dei pochissimi a seguirlo spesso). È, a parer mio, la migliore app di cinema interamente italiana: ricalca le orme di Imdb, perché come quest’ultima ha un archivio pazzesco, e propone moltissimi contenuti: trailer, trame dettagliatissime dei film in programmazione e in arrivo, tante fotografie, biografie complete di attori e registi. In più rispetto a Imdb offre anche la programmazione completa di tutti i cinema della zona in cui viviamo, con tutti gli orari e il rilevamento satellitare della sala cinematografica con Google Maps. Una delle nuove e più carine funzioni dell’app è “Your Mood”: si trova nel pannello laterale sulla sinistra, ed è una sezione che suggerisce un film tra quelli in programmazione vicino alla propria casa in base alle persone con cui si è deciso di andare al cinema e allo stato d’animo. È inoltre presente una ricca sezione “Notizie”, che contiene tutti gli aggiornamenti sui film e sugli attori e anche “Under 12”, che permette di avere un elenco già filtrato con tutti i film nelle sale dedicati ai più piccoli. Per i seguaci dei “trend”, c’è anche la sezione “Box Office” con le pellicole ancora in proiezione che sbancano i botteghini. Consiglio questa applicazione davvero a tutti, perché oltre all’interfaccia intuitiva, consente di informarsi a 360 gradi.

3. MyMovies Pro (questa è quella a pagamento: ben 6,99 €!)

Necessaria se non fondamentale per chi possiede una vasta collezione di DVD o BluRay, MyMovies Pro è ottima per la classificazione: avendo un archivio quasi infinito, permette di catalogare tutti i film che si possiedono secondo alcuni parametri come il genere di film, o il gradimento. È anche possibile, dettaglio utilissimo per gli smemorati, specificare dove si trova esattamente ogni film della nostra collezione, e quindi anche se è stato prestato.

La versione gratuita di quest’app è inutile, perché permette di catalogare solo una cinquantina di film. Quindi consiglio di puntare subito alla versione PRO. Personalmente, ce l’ho e la uso da anni. È molto ben fatta e finalmente non devo impazzire quando mi capita di cercare un film nella mia infinita collezione domestica di dvd.

Tutte le ALTRE.

CineTrailer Cinema, creata dalla Web Agency Ddm.it con sede a Milano, è l’app dell’ominimo sito web (www.cinetrailer.it). È sicuramente ben fatta, e risulta godibile soprattutto perché propone (oltre alla programmazione completa delle sale cinematografiche vicino a casa) anche una ottima sezione di trailer in full HD e schede dettagliate sui film. Purtroppo, e lo dico con rammarico, non è completa al 100%: mancano le biografie degli attori e registi, e soprattutto la ricerca negli archivi è molto lacunosa. Non si trovano alcuni film “storici”, e inspiegabilmente alle volte è impossibile fare una tranquilla ricerca dalla barra predisposta. Ciò detto, resta comunque un’alternativa (apprezzata da molti utenti) a Coming Soon Cinema, essendo anch’essa tutta in italiano.

Movie Showtime

Nonostante la grafica accattivante, più apprezzabile su Windows Phone, Movie Showtime è ancora un’app molto acerba. In pratica, la sua caratteristica principale è quella di proporre la programmazione completa dei cinema nella città dell’utente. Il resto (trame, schede sui film, ecc.) risulta un po’ sgangherato, ma le intenzioni sono sicuramente buone ed è possibile che in futuro migliori.

Tutto quello che c’è da sapere su “Boyhood”, il film che ha quasi vinto l’Oscar.

“Boyhood” è stata una grande scommessa, di Richard Linklater e di tutto il suo cast. Si configura come un progetto cinmatografico del tutto innovativo, perché mai prima d’ora a nessuno era venuta un’idea simile.

Cosa c’è di speciale in “Boyhood”.

Richard Linklater ha scelto di girare il film in 39 giorni, e fin qui tutto normale. Se non fosse che i 39 giorni sono distribuiti in un’arco temporale che va dal 2002 al 2013, 11 anni esatti. Praticamente, le regole di lavorazione tipiche dei film sono state riscritte. Ogni anno, il regista ha riunito la troupe per alcune settimane, perché era sempre stato “un suo grande desiderio quello di filmare la vita di un ragazzo e la sua relazione con i genitori in un periodo di tempo che comprendesse la sua infanzia e adolescenza”. Linklater non ha fornito al cast nessuna sceneggiatura completa ma soltanto un elenco dei punti cardine della trama, e alla fine di ogni anno di ripresa, dopo aver guardato le ultime scene girate, scriveva una nuova parte dello script anche considerando i cambiamenti umani dei vari interpreti. Gli attori principali hanno partecipato alla stesura della sceneggiatura inserendo contributi molto personali e basati sulle loro esperienze di vita, fattore indubbiamente nuovo nel processo creativo di un film. Ad esempio, il personaggio interpretato da Hawke è costruito sia sul proprio padre che su quello di Linklater e il personaggio di Olivia/Patricia Arquette è basato molto sulla madre dell’attrice. Nonostante questo importante lavoro di collaborazione, Linklater ha tenuto a specificare che nessun attore ha mai modificato l’impianto base del film né ha cambiato le sue direttive o influenzato (neanche indirettamente) le sue idee sull’andamento della storia. In sintesi, il regista aveva già deciso da subito quale sarebbe stato lo sviluppo e il destino di ogni personaggio.

L’intero film è costato un totale di 2,4 milioni di dollari. Con un certo coraggio il regista è riuscito a intraprendere questo progetto perché, legalmente, non aveva alcuna garanzia o tutela “contrattuale” che vincolasse gli attori: negli USA è infatti impossibile ingaggiare qualcuno in un film per più di sette anni. Linklater prese accordi con Ethan Hawke, che nel film interpreta il padre del giovane Mason, perché fosse lui a continuare le riprese in caso di sua morte prematura.

Uno dei possibili nomi che vennero pensati per “Boyhood” fu “12 anni”, però il regista si pose qualche dubbio con l’uscita del film “12 anni schiavo”. Affinché nessuno potesse confondere i due film, il titolo venne accantonato.

“Boyhood”, pur essendo stato di fatto snobbato agli Oscar, ha comunque ottenuto diversi premi: oltre all’Oscar per Patricia Arquette si è aggiudicato solo nel 2015 3 Golden Globes, 3 BAFTA, 1 SAG Award, 2 Satellite Awards e 2 Indipendent Spirit Awards. Nel 2014 inoltre Linklater ha vinto il suo secondo Orso D’Argento a Berlino come Miglior Regista.

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Chi sono gli attori coinvolti nel progetto.

Per interpretare il piccolo Mason Evans Jr., Linklater scelse Ellar Coltrane all’età di sette anni. Coltrane ha anche avuto un ruolo in un altro film del regista, “Fast food nation”, nel 2005. Nel ruolo dei genitori, vennero scelti Ethan Hawke (che si può considerare l’attore “feticcio” di Linklater, dato che l’ha voluto in ben sette dei suoi 17 film tra cui la celebre trilogia romantica dei “Before” -Sunrise, Sunset, Midnight-) e Patricia Arquette (che molti ricordano per “Lost Highway” di David Lynch e “True romance” di Tony Scott). La sorella maggiore di Mason è interpretata dalla figlia di Linklater, Lorelei. Quando le riprese iniziarono, Ethan Hawke aveva 32 anni, Patricia Arquette 34 e Lorelei Linklater otto.

Chi è Richard Linklater.

Texano di Houston, dove nacque nel 1960, Linklater è uno dei più noti esponenti del cinema indipendente americano. Si fa notare nel 1995 con “Before sunrise”, primo capitolo di quella che sarebbe diventata una trilogia sentimentale con Ethan Hawke e Julie Delpy. Il film gli fruttò anche un Orso d’Argento come Miglior Regista al Festival di Berlino. Il suo successo commerciale più grande è sicuramente “School of Rock” (un piccolo gioiello di film sull’amore spassionato per il rock “duro e puro”) con Jack Black nei panni di un rockettaro che si improvvisa, per uno scambio di persona, insegnante di musica in una scuola elementare. Con “Boyhood”, Linklater ha ottenuto la sua prima nomination agli Oscar come Miglior Regista.

Perché vedere “Boyhood”: 4 buone ragioni.

1. Perché mai nessun film è stato concepito in questo modo.

Qualcuno ha paragonato “Boyhood” ai film di Francois Truffaut su Antoine Doinel, da “I quattrocento colpi” a “L’amore fugge”. Per quanto si tratti dell’unico paragone possibile nella storia del cinema, si tratta comunque di due esperimenti ben diversi: l’opera di Linklater è un unico film girato in 11 anni, concentrato in sole due ore e quaranta minuti, mentre Truffaut girò una vera e propria “saga” di quattro film e un corto, che uscirono separatamente nell’arco di 19 anni.

2. Perché l’interpretazione di Ethan Hawke è forse la migliore della sua carriera.

Lo conosciamo dai tempi de “L’attimo fuggente”, è uno degli attori più rappresentativi dei nostri tempi, sa passare con grande ecletticità dal romantico, al drammatico, al thriller. Eppure la critica, finora, non gli ha mai dato la giusta considerazione. Il fatto che le riprese di “Boyhood” siano iniziate nel 2002, la dice lunga su quanto sia il tempo che si sottovaluta questo attore.

3. Perché alcune battute del film sono delle vere e proprie perle di saggezza.

Come dimenticare i consigli di papà Ethan: “Le donne non sono mai soddisfatte, ok? Loro sono sempre a caccia di qualcosa di meglio ed è questo che penso sia capitato a te, mio caro amico pennuto. Non mettere il controllo della tua autostima nelle mani di Sheena. Vuol dire che tu rispondi solo a te stesso, non alla tua ragazza, non a tua madre, non a me, tu.”  O la bella similitudine col bowling, “Niente spondine, la vita non regala spondine”. Molto belli anche i saggi pensieri esistenziali di Mason: “E’ come se la vita di ognuno di noi fosse relegata in un limbo e fosse inaccessibile agli altri” e “Io voglio solo provare a non vivere la mia vita attraverso uno schermo. Voglio riuscire ad avere un’interazione reale con una persona vera, non con un profilo messo lì”.  E la splendida, geniale, frase finale del film, pronunciata tra l’altro da un personaggio sconosciuto e qualunque, che riecheggia i consigli del professor Keating de “L’attimo fuggente” ma capovolgendo il senso della sua frase più celebre e ispiratrice:” “Sai quando qualcuno ti dice “Cogli l’attimo”? Non lo so…io invece credo che succeda il contrario: nel senso che è l’attimo che coglie noi”. Una frase che potrebbe diventare per i giovani del 2000 quello che è stato il “Cogli l’attimo” per i ragazzi degli anni ’90.

4. Perché è un po’ la storia di tutti noi, raccontata senza filtri.

È vero, non tutti sono figli di genitori divorziati o così “incasinati” ma è anche vero che, tirate le somme, la mamma e il papà di Mason sono brave persone e hanno trasmesso dei valori universali ai loro figli, nei quali tutti ci riconosciamo. E poi il modo in cui la pellicola è costruita, ripercorrendo gli anni 2000 fino ad oggi, è familiare a ognuno di noi. È come se vedessimo un filmino del nostro passato.

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Locandina del film.

Oscar Predictions: ecco cosa potrebbe accadere domani notte al Dolby Theatre di L.A. E anche cosa non accadrà mai.

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La copertina dell’Hollywood Reporter dedicata agli Oscars 2015

Anche qui ci si lancia in predizioni, perché è un po’ un modo rapido per fare il punto della situazione. Domani notte (per noi, sera per gli americani) nell’ormai mitico Dolby Theatre di L.A., come ormai tutti sappiamo, si terrà l’87esima notte degli Academy Awards ovvero gli Oscar del cinema mondiale. Tra i film candidati non ci sono state grossissime soprese, per cui dovrebbe essere anche abbastanza semplice prevedere l’esito della premiazione. È chiaramente molto riduttivo basarsi solo sugli Oscars per avere un’idea precisa del cinema attuale, però è comunque un modo per essere sempre affacciati sul mondo della settima arte, soprattutto nel Paese che più crea, produce ed esporta il cinema di questi tempi: gli Stati Uniti.

Quest’anno la cerimonia degli Academy Awards sarà condotta da Neil Patrick Harris, volto noto della tv americana perché tra i protagonisti della sitcom che ha rivoluzionato le sitcom: How I Met Your Mother (ne ho parlato da poco qui). Dopo la (secondo me) disastrosa conduzione di Seth McFarlane (solo pensare a questo siparietto mi deprime), l’Academy ha pensato bene di optare per presentatori più in linea con il livello della serata. L’anno scorso è stata la volta di Ellen DeGeneres, la seconda per lei dopo il 2007, ed è stata eccellente. Quest’anno eredita lo scettro Neil e -per quanto dubiti delle sue capacità di mattatore da palcoscenico- sono certa che sarà quantomeno una conduzione all’insegna dello stile, anche nell’ironia. Oltretutto, ho una particolare predilezione per Harris come attore (lo considero geniale, in un certo senso), quindi sono contenta che abbia l’occasione artistica di proporsi a un pubblico vastissimo e in mondovisione.

Come scrivevo sopra, non ci sono state grandi sorprese tra le nomination. Era facile immagine quali sarebbero stati  i candidati principali, più o meno come ogni anno, anche in seguito ai Golden Globes. Qualche piccolo “schock” per le poche candidature di “Interstellar” di Christopher Nolan, che avrebbe meritato almeno la nomination a Miglior Film oltre che quelle ottenute per premi tecnici. Però evidentemente la giuria dell’Academy non è rimasta particolarmente impressionata dall’avventura nello spazio dei tre astronauti alla ricerca del buco nero Gargantua. Altra piccola/grande ingiustizia, forse, la mancata candidatura di Jake Gyllenhaal per “The Nightcrawler” e di Matthew McConaughey, la cui interpretazione in “Interstellar” avrebbe meritato almeno la stessa considerazione di quella di Bradley Cooper in “American Sniper”. Comunque, le jeux sont faits. Domani conosceremo i verdetti, e potremo commentare con cognizione di causa. Per adesso possiamo limitarci soltanto a qualche previsione.

Dato che quest’anno mi sento “abbastanza” sicura delle mie supposizioni, vi propongo quindi la mia lista di vincitori per categoria. Vedremo se l’Academy mi darà ragione!

Miglior Film: Birdman, regia di Alejandro G. Inarritu (oppure “Boyhood” di Richard Linklater)

Miglior Attore protagonista: Eddie Redmayne per “La teoria del tutto” (Michael Keaton per “Birdman” è l’altra concreta possibilità)

Miglior Attrice protagonista: Julianne Moore per “Still Alice”

Miglior Attore non protagonista: J.K. Simmons per “Whiplash”

Miglior Attrice non protagonista: Patricia Arquette per “Boyhood” (sarei contenta anche per Emma Stone, ma è più un mio desiderio che altro)

Miglior Film d’animazione: Big Hero 6

Miglior fotografia: Emmanuel Lubezki per “Birdman” (segreta speranza: Dick Pope per “Mr. Turner”)

Migliori costumi: The Grand Budapest Hotel (oppure Into the woods… Milena Canonero e Coleen Atwood sono entrambe delle autorità nel campo)

Miglior regia: Alejandro G. Inarritu per “Birdman” (oppure Richard Linklater per “Boyhood”)

Miglior trucco: The Grand Budapest Hotel

Miglior colonna sonora originale: Jóhann Jóhannsson per “La teoria del tutto” (oppure Alexander Desplat per The Grand Budapest Hotel)

Miglior montaggio del suono: Interstellar

Miglior missaggio: Whiplash

Miglior effetti visivi: Interstellar

Miglior sceneggiatura non originale: Inherent Vice

Miglior sceneggiatura originale: The Grand Budapest Hotel (o Nightcrawler)

Per buttarla sul ridere, ecco invece una classifica semiseria di chi agli Oscar 2015 non vincerà MAI, sempre secondo me (solo premi principali!).

Miglior Film:” The imitation game”, di Morten Tydlum

Miglior Attore protagonista: Benedict Cumberbatch per “The imitation game”

Miglior Attrice protagonista: Felicity Jones per “The theory of everything”

Miglior Attore non protagonista: Edward Norton per “Birdman”

Miglior Attrice non protagonista: Keira Knightley per “The Imitation game”

Miglior Film d’animazione: The Boxtrolls

Migliori costumi: Maleficent

Miglior regia: Bennett Miller per “Foxcatcher”

…e adesso, staremo a vedere come andrà domani notte al Dolby Theatre! In pagina commenterò le vittorie, quindi state all’erta!  😉

-Alice

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I candidati come best actors

Robin Williams, la sua vita come un film.

Oggi è stata confermata la morte di Robin Williams per suicidio.

Robin ci ha lasciati l’11 agosto scorso, si è tolto la vita con una cinta al collo. Ancora, quando ci penso, stento a credere che non ci sia più. Forse, come molte altre persone che seguivano la sua carriera (ma anche come -immagino- i suoi familiari più stretti) non avrei mai pensato che dentro di lui ci fosse un dolore tanto grande da impedirgli di vedere la bellezza della vita, nonostante tutto. Aveva la capacità rara di nascondere dietro a una facciata impenetrabile quelli che erano i suoi reali pensieri. Però sono arrivata alla conclusione, dopo molte riflessioni, che il mio rispetto per Robin Williams è diventato ancora più profondo per questa sua scelta definitiva. Per lui sarebbe stato peggio, forse, continuare a vivere portandosi dentro una sofferenza irreversibile, non penso che la sua mente avrebbe resistito. Forse sarebbe impazzito e forse, da parte sua, questo è stato l’ultimo gesto di “generosità”. Almeno, mi piace credere (e rende più “facile” accettare la realtà) che abbia consapevolmente fatto una scelta tanto dura pensando ai suoi familiari e considerando che no, non è possibile interagire e stare accanto a una persona che semplicemente non vuole vivere.

Io ho sempre pensato che non si può vivere per fare un favore agli altri. Nella vita bisogna crederci, bisogna avere l’energia e la forza per affrontare ogni singolo giorno su questo pianeta. Perché non è affatto vero che è semplice. Per alcuni di noi può essere un impegno enorme e bisogna proprio amarla al cento per cento questa vita. Per chi è più fragile, sensibile, emotivo, empatico l’esistenza può far male.

Possono sembrare parole dure, ma secondo me sono tutte vere. Non me la sento di criticare Robin o chi come lui ha scelto di andarsene. Non posso farlo. Di certo è stata una decisione atroce e mi rifiuto di credere che l’abbia fatto in un momento di follia. Non era un pazzo, era un uomo pieno di tristezza e forse portava dentro di sé da anni un dolore immenso, che fatichiamo anche a comprendere. E per questo non ci sono ragioni, può dipendere da tutto, dall’infanzia, dalle esperienze della vita, da ogni cosa. Chi può saperlo davvero, in effetti? Si possono solo fare illazioni. La nostra mente è un universo, ma di una cosa possiamo essere certi: è come una lente attraverso la quale interpretiamo il mondo, e ogni interpretazione di ogni essere umano è diversa e diversamente complessa. Non esistono spiegazioni, meno che mai scientifiche. Rassegniamoci.

Ribadisco, rispetto chi si toglie la vita. E’ un rispetto silenzioso il mio, non sbandiero nulla, non dico che sono d’accordo o che sono contraria. Semplicemente, rispetto questa scelta. Anche se mi si spezza il cuore al solo pensiero, e se soffro io immagino quanto stiano male, malissimo i familiari. Ma è così, non posso fare altro. L’impotenza totale mi spinge al silente rispetto.

Nessuno è colpevole o innocente, in queste situazioni. Non ci devono essere accuse e processi. Semplicemente, bisogna prendere atto che certe cose sono e saranno sempre più grandi di noi.

Mi sembra bello ricordare Robin anche con questo bellissimo video realizzato dal Corriere Della Sera, intitolato -giustamente- “la sua vita come un film”. Capirete perché guardandolo.

E’ solo un piccolo omaggio, ma sicuramente lo gradirebbe molto.

>>> http://video.corriere.it/video-embed/daba65f0-22ca-11e4-9eb4-50fb62fb3913

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Robin Williams (1951-2014)

I classici Disney: la fine di un ciclo?

Qualche mese fa ho consapevolmente scelto di vedere “Frozen”, il penultimo classico Disney. Quindi ero anche conscia delle eventuali conseguenze che mi attendevano. Uscito lo scorso Natale, è un film animato al computer e ripropone la nota fiaba della Regina delle Frozen-Movie-Elsa-HD-Wallpaper1Nevi. Conoscendo bene la storia da cui è tratto, sono rimasta un po’ delusa dalla totale libertà con cui gli sceneggiatori hanno rivisto ogni elemento della trama originale, del tutto stravolta. Ma in effetti questo è stato il male minore. Dopo “Ralph Spaccatutto”, onestamente, non avevo grandi aspettative anche se la segreta speranza era che questo ultimo lavoro di casa Disney si ponesse sulla stessa lunghezza d’onda del molto più riuscito “Rapunzel” (2010). Invece niente, delusione su tutti i fronti: storia banalissima, musiche al limite del nauseante, personaggi senza un minimo di spessore. Mi piacerebbe poter parlare di “ritorno al passato”, ma sarebbe ingiusto considerando le glorie che la Disney ha colleRalph_spaccatuttozionato in questi 80 anni di esistenza. No, forse si può parlare soltanto di “involuzione”. Mi chiedo cosa sia cambiato esattamente nella concezione dei nuovi classici, soprattutto negli ultimissimi anni. Forse il target a cui la produzione si rivolge, adesso decisamente inferiore: parliamo di bambini, non certo (non più) adolescenti. “Ralph Spaccatutto” aveva il pregio indiscutibile di una trama originale: i videogiochi anni ’80 che si scontrano con quelli anni 2000. Una specie di “Toy Story” tra videogame. Purtroppo, nella sostanza dei fatti, il cartone è risultato infantile: dialoghi, tecniche, personaggi troppo puerili. E soprattutto, una (LA) vera mancanza grave secondo me: l’ironia. Ma dov’è finita quella fantastica ironia Disney che mi ha fatto piegare dalle risate sempre, vincendo il tempo e la nostra umana tendenza a diventare più razionali e seri con l’età? Insomma, gli ultimi classici Disney non fanno ridere. Ma neanche una volta, neanche per sbaglio.

Rapunzel
Rapunzel

Qualche ventata di ironia l’avevo respirata con “La principessa e il ranocchio” e “Rapunzel”, tant’è che mi era sembrato di assistere a una vera e propria “rinascita” dei capolavori a cui eravamo abituati. Invece era stato solo un miraggio. “Frozen”, realizzato da Chris Buck e Jennifer Lee sul soggetto originale di Hans Christian Andersen e sceneggiatura sempre di Buck e Lee assieme a Shane Morris, ripropone le tecniche che avevamo già visto in “Rapunzel”: le protagoniste femminili, Elsa e Anna, sono praticamente identiche -nella grafica digitale- a Rapunzel e lo stesso dicasi per i personaggi maschili. Il cartone in sé è ottimamente realizzato a livello di computer grafica e scenografie “nordiche”: paesaggi innevati, boschi di montagna, il palazzo di ghiaccio che rappresenta un po’ il freddo cuore di una delle protagoniste.

Parte dello storyboard di "Frozen"
Parte dello storyboard di “Frozen”

A differenza degli altri classici, in una cosa “Frozen” è diverso: è un musical. Una scelta abbastanza azzardata, considerando che questo genere può non incontrare il favore di tutti. Personalmente, ho ritenuto questa impostazione davvero pesante. Oltre alla debolissima trama, un vero attentato all’intelligenza media delle persone, anche la beffa di una canzone insulsa a intervalli regolari, per un totale di dieci esecuzioni. Ho faticato a finire di vederlo, mi sentivo come Mercoledì Addams che guarda i film Disney al campo Chippewa sotto punizione dei capi scout. E’ stata davvero dura, e tra l’altro specifico che io apprezzo i musical. Quindi, tutta la buona volontà c’era.

Se dovessi salvare per forza qualcosa di questo 53° classico Disney, oltre la grafica, probabilmente salverei (e mi stupisco anche io di questa affermazione) le scene iniziali della festa al castello, quando le sorelle “debuttano” in società, perché conservano qualche elemento di simpatia e rievocano alla lontana i siparietti comici in stile Disney, e infine la scena in cui la Regina delle Nevi canta “Let it go”, la melodia principale del film nell’esecuzione tutto sommato riuscita di Idina Menzel, che ha per l’appunto un background da cantante di musical. Nient’altro. In questo senso, posso capire l’Oscar alla Miglior Canzone Originale, poteva anche starci, ma mi chiedo il perché dell’Oscar al Miglior Film d’Animazione.

È stato un premio immeritato, soprattutto se pensiamo ai candidati in lizza per questo riconoscimento: “Cattivissimo me 2” di Pierre Coffin e Chris Renaud, sempre al massimo del divertimento, I “Croods”, pazza famiglia preistorica ideata da quel genio di illustratore che è Chris Sanders, “Ernest e Celestine”, sceneggiato dal grande Daniel Pennac e “Si alza il vento”, surreale racconto di Hayao Miyazaki. Non è quindi razionalmente spiegabile la scelta di indirizzare il premio a “Frozen”, se non in quanto accordo finanziario tra produzione e Academy.

ParaNorman
ParaNorman (2012)

Ma di solito è facile prevedere le vittorie agli Oscar nell’ambito della Miglior Animazione: quando non c’è la Pixar vince la Disney, e viceversa. Se son candidate entrambe, vince la Pixar. Più o meno, in termini di previsioni, funziona così. È forse dal 2010 (anno di “Up”, per intenderci) che non vince un film animato davvero meritevole. Prima ancora, soltanto “Wall-E”, “Gli Incredibili” e “La città incantata” avevano degnamente ottenuto la vittoria. Resta comunque e sempre un piccolo scandalo che veri e propri capolavori come “Appuntamento a Belleville”,”La sposa cadavere”, “Coraline e la porta magica”, “Persepolis”, “Frankenweenie” e “Paranorman” siano stati messi da parte in favore di produzioni palesemente inferiori in termini di qualità artistica.

Come 54° classico, la Disney ha stretto un sodalizio con Marvel per i diritti di “Big Hero 6”, che racconterà di un gruppo di supereroi in Giappone. Da quello che si può trovare in giro, pare che la produzione si sia discostata quasi del tutto dalla storia originale (ma dai!), e il fatto che tra i realizzatori non compaia neanche il nome di un membro dello studio Marvel dice tutto. Sarà un nuovo buco nell’acqua? Staremo a vedere.

Le serie tv che non potete perdere (secondo me).

Da appassionata di cinema, non potevo non approdare al mondo delle serie tv. Ammetto di esserci capitata più tardi di quanto normalmente accade, ma quando è successo è stata una scoperta piacevole quanto inaspettata.

Dietro le serie c’è un mondo intero: sceneggiatori geniali, attori incredibili, storie che ti tengono fino all’ultimo col fiato sospeso. Al contrario di quello che pensavo, non è affatto un mondo “di scarto”: ho provato forse più emozioni intense, negli ultimi tempi, grazie alle serie che ai film.

Premetto che non parlo soltanto delle serie americane, nonostante siano quelle che seguo con più partecipazione. Anche l’Italia ha sfornato prodotti interessanti. Facendo una piccola classifica delle nostre produzioni migliori:

-Il commissario Montalbano.

2314565Tratto dai gialli best seller di Andrea Camilleri, questo ciclo di telefilm va avanti ininterrottamente dal 1999. Quindici anni in cui abbiamo imparato ad amare il burbero Salvo Montalbano, commissario irreprensibile e coraggioso, nonché dotato di un raro intuito investigativo. La forza di questa serie è rappresentata proprio dalla figura del protagonista, che associa una moltitudine non comune di doti come l’innato senso morale a una spiccata umanità che lo rende più vicino a ognuno di noi. L’ambientazione è un altro elemento vincente di “Montalbano”: la Sicilia, terra misteriosa, ricca di cultura e tradizioni millenarie, di bellezze paesaggistiche e urbane. Una terra che ancora nessuno è veramente in grado di decifrare, neanche chi (come lo stesso Montalbano dimostra) ci vive da una vita intera. La penna del maestro Camilleri, poi, fa tutto il resto: trame mai scontate e sempre nuove e di una modernità disarmante. A livello “tecnico”, è da plauso la fotografia, e la regia di Alberto Sironi. E’ ancora un piacere, per me, seguire questa fiction e non credo che potrà mai annoiarmi.

-Boris

borisDefinita come “la serie fuori serie”, “Boris” (ideata da Luca Manzi) racconta il mondo del cinema attraverso una cronaca ironica della vita su un set, dove si gira la fittizia fiction “Gli occhi del cuore 2”. Considero “Boris” uno dei format tv più originali mai creati e, per quanto non l’abbia mai seguita bene, l’ho sempre apprezzata. L’anima di questa serie sono senza dubbio i suoi interpreti, estrosi e simpatici, come Francesco Pannofino, Pietro Sermonti, Antonio Catania, Caterina Guzzanti, Carolina Crescentini. Sono solo alcuni degli attori coinvolti -Boris ha conosciuto tre stagioni e una riuscita trasposizione cinematografica- ma sicuramente tra i più noti. Non è forse una fiction coinvolgente come altre, però merita di essere seguita proprio per la sua comicità e per il suo essere fuori dai canoni rispetto alle solite serie italiane (che di solito sono soap un po’ banalotte, diciamocelo!).

A questa classifica, aggiungo anche due fiction che meritano di essere citate, ovvero “Gomorra-La serie” e “Romanzo criminale”. Pur non avendo mai visto una sola puntata di entrambe, ho letto molti pareri positivi e conto al più presto di colmare la lacuna. Come si comprende dai titoli, sono tratte dalle note opere di due scrittori italiani, Roberto Saviano e Giancarlo De Cataldo. “Gomorra” racconta dei clan camorristi e delle dinamiche tra i vari membri di questa organizzazione criminale profondamente radicata nel territorio campano. Per ora è stata trasmessa una sola stagione su Sky Atlantic, ma il successo è stato dirompente. “Romanzo criminale” è invece la nota storia della Banda della Magliana e dei suoi storici componenti, vicenda peraltro già raccontata dal film di Michele Placido.

Passando invece al più ricco universo delle serie tv americane, la scelta è molto più ampia e di conseguenza anche più difficile. Ogni emittente sforna infatti decine di fiction l’anno, e solo alcune secondo me (e secondo gli esigenti spettatori americani) meritano davvero. E’ spesso comune che vengano cancellate delle serie dopo appena una stagione, anche solo dopo un paio di episodi. Nel mondo di squali che è la tv americana, i “prodotti” che possono permettersi di restare a galla devono registrare ottimi picchi di gradimento. Ma questa legge, per quanto impietosa possa essere (e talvolta anche ingiusta, si veda il caso della drastica cancellazione di “The Crazy Ones”, che vantava come protagonista il grande Robin Williams), ha portato alla ribalta più che meritata veri e propri capolavori. Cercherò di essere il più obiettiva possibile con questo personalissimo elenco.

1) Breaking Bad.

10639646_353571461487422_5681188800531600287_nIn Italia abbiamo dovuto aggiungere il sottotitolo “Reazioni collaterali” per spiegare, o quantomeno provarci, il senso dell’espressione idiomatica del titolo. E il sottotitolo non rende neanche lontanamente l’idea di quello che “Breaking bad” significa secondo un modo di dire del South West, ovvero: rompendo le regole, sfidando le convenzioni e l’autorità. Proprio quello che, nel corso delle cinque stagioni della fiction, decide di fare Walter White, professore di chimica in un liceo di Albuquerque, New Mexico. Walter, da sempre cittadino perbene, lavoratore, uomo onesto, affettuoso padre e fedele marito, inizia a cambiare quando apprende del cancro ai polmoni. L’assicurazione sanitaria non copre tutte le spese mediche, e il professore inizia a vedere quello che resta della sua vita come un susseguirsi di sfortune. Non basta la malattia, ci vuole anche la povertà. E sua moglie e i due figli, come faranno a vivere? E lui merita davvero tutto questo? La vita allora gli appare sotto un’altra luce, piena di infinite possibilità che mai aveva considerato. Che mai si sarebbe sognato di considerare. Il rischio per lui non rappresenta più un problema: gli si materializza nel cervello la piena consapevolezza delle sue doti, della sua genialità come uomo di scienza che ha sfiorato il Nobel. E allora decide di saltare il fosso. Neanche il semplice fatto di avere un cognato intransigente e agguerrito nella DEA (Drug Enforcement Administration) lo spaventa, e non lo ferma quando decide di mettersi in società con un suo ex studente ormai piccolo spacciatore di metanfetamine, Jesse Pinkman. Assieme a Jesse, Walter inizierà una lenta ma inesorabile discesa agli inferi, ovvero una escalation piuttosto rapida nel sottobosco dello spaccio di droga. Tutto questo lo porterà prima semplicemente a “cucinare” le metanfetamine e poi a volersi imporre come leader del settore. E Walter si trasformerà in un “buco nero”, che risucchia tutto quello che ha intorno, ormai accecato dall’avidità e dalla cattiveria. 

“Breaking bad” è più di un telefilm, è una saga dell’orrore umano che mostra quanto in basso si può spingere una persona per perseguire i propri fini, quali essi siano. Walter White potrebbe essere chiunque, non è un folle, non è un delinquente, è “l’uomo qualunque” per antonomasia, dal banale nome al banale aspetto. E forse proprio questo punto a rendere la storia così drammatica e inquietante. Ho amato ogni singolo episodio di questa serie, che meriterebbe un’analisi approfondita ben oltre queste poche righe. Sicuramente, le interpretazioni di Bryan Cranston, Aaron Paul, Anna Gunn, Bob Odenkirk, Dean Norris, Giancarlo Esposito sono davvero fuori dall’ordinario, senza retoriche. Cranston su tutti è uno dei più grandi interpreti contemporanei, con una carica vitale travolgente che traspare da ogni poro del suo corpo. Se Walter White è già un immortale, questo è solo merito suo.

2) Dexter.

Al secondo posto metto “Dexter”, successo della Showtime. Anche se non è stato un colpo di fulmine come con “Breaking Bad”, l’amore si è rivelato ugualmente intenso. Dexter Morgan, il personaggio protagonista che da’ il titolo alla serie, è certamente uno dei più complessi mai creati. Si barcamena tra l’essere un cattivo a tutto tondo, “serial killer” sadico e violento, e l’essere un buono portatore di valori positivi e imprescindibili. “Nato nel sangue”, come lui stesso ama ripetere, Dexter vede assassinare sua madre nel più brutale dei modi quando aveva appena tre anni. Harry Morgan, sergente della polizia di Miami, trova il bambino sul luogo dell’omicidio, coperto di sangue e traumatizzato. Decide così di adottarlo. Dexter cresce nella sua nuova famiglia, sviluppando un profondo legame con Harry e la sore60af09172d24d4b02f7c9fc3a10fb45ellastra, Debra. Sin dall’infanzia, però, il ragazzo manifesta strane tendenze che lo portano a sentirsi attratto dal sangue e quindi a uccidere. Per evitare che il figlio si trasformi in un pazzo omicida, Harry decide di elaborare un codice comportamentale che possa permettere a Dexter di vivere nel mondo non reprimendo ma indirizzando il suo bisogno di uccidere verso una direzione “giusta”. Così Dexter diventa un serial killer, ma solo per chi veramente lo “merita” (secondo quello che lui chiamerà “il codice di Harry”). Anaffettivo e convinto della sua incapacità di provare qualsiasi sentimento, Dexter si inserisce nel mondo trovando lavoro come ematologo forense (occupazione perfetta per un amante del sangue!) presso la omicidi di Miami, e costruendosi una vita di facciata che nasconda la sua vera esistenza da assassino seriale. Perfino la sua fidanzata, Rita, e i figli di lei, sono solo una copertura che Dexter usa per apparire normale. L’unico rapporto che sembra avere una qualche reale importanza per l’uomo è quello con Debra, sua sorella, che genera in lui un forte istinto protettivo soprattutto in seguito alla morte di Harry.

Tratta dai romanzi di Jeff Lindsey, “Dexter” è una serie tutta incentrata sul  protagonista e sul suo “bisogno” di uccidere e di “ripulire” il mondo da quelli che lui considera elementi irrecuperabili. In effetti, porsi troppe domande “etiche” di fronte al comportamento di Dexter non ha molto senso, soprattutto ai fini della storia. Se si vuole entrare nel meccanismo che regola ogni puntata diventa un po’ inutile tirar fuori la morale. Nello sviluppo degli eventi, sarà infatti lo stesso Dexter a interrogarsi sulla giustezza o meno delle proprie azioni. Questo porterà lo spettatore a comprendere che Dexter è molto più “umano” di quello che lui stesso poteva immaginare. Quindi, secondo me, si deve aspettare che sia il personaggio a crescere, a maturare nuove convinzioni e a conoscere i primi dubbi. E se in fondo Harry Morgan avesse sbagliato a scegliere per suo figlio? A parte queste considerazioni, Dexter merita di essere seguita dalla prima all’ultima puntata (nonostante l’ottava serie abbia diviso pubblico e critica) semplicemente perché i ritmi narrativi, le trame avvincenti, i colpi di scena e i personaggi ben costruiti la rendono una fiction imperdibile per tutti coloro che amano il genere thriller. Una menzione particolare va fatta, anche in questo caso, per l’attore protagonista Micheal C. Hall. Dopo l’esperienza lavorativa nella serie pluripremiata “Six Feet Under”, nella quale interpretava il figlio omosessuale dell’impresario funebre Nathaniel Fisher, Hall ha conosciuto un meritato successo e la notorietà. Fama ulteriormente accresciuta grazie alla perfetta interpretazione di Dexter Morgan, molto misurata ma anche tormentata e intensa. 

Aggiungo una personale considerazione sulla sigla della serie: è senza dubbio una delle mie preferite. Gesti quotidiani, di una banalità disarmante, che rievocano le ritualità di Dexter come serial killer. E la musica, gaia e spensierata, completamente stridente con la drammaticità racchiusa in gran parte degli episodi. 

3) Game of Thrones – Il trono di spade.

10003419_353570211487547_6276188136095957439_nDa amante del genere fantasy e della filmografia storica, era impossibile che mi sfuggisse “Game of Thrones”. Questa serie televisiva nasce, com’è facile immaginare se si sa qualcosa sulla bibliografia da cui è tratta, per necessità. Le vicende dei sette regni del mondo fantastico inventato da George R.R. Martin e raccontate nella saga “Cronache del ghiaccio e del fuoco” sono infatti troppo piene di intrecci, elaborate, complesse e lunghe, troppo ricche di personaggi e legami familiari intricati perché potesse essere realizzato un solo film o anche una trilogia in stile “Il signore degli anelli”. Soltanto una serie tv poteva raccontare al meglio, o quantomeno provarci, i sette volumi delle Cronache. Ecco quindi che nel 2011 la HBO manda in onda questa fiction, che da subito registra picchi d’ascolto incredibili e diventa un caso cinematografico. Breve sintesi della trama: nei sette regni del continente Westeros, dove le stagioni durano anni, gli esponenti delle più nobili famiglie si contendono la supremazia e il trono. A spiccare tra queste famiglie sono essenzialmente tre: gli Stark, i Lannister e i Targaryen. Gli Stark, che si contraddistinguono per un’indole coraggiosa e giusta, hanno come capostipite il lord di Grande Inverno Eddard e la sua progenie, le figlie Arya e Sansa e i figli Jon, Brandon, Robb e Rickon. I Lannister, caratterizzati da avidità, brama di potere, crudele astuzia ed egoismo associati a un’indole guerriera sono invece rappresentati da lord Tywin e dai suoi figli, i gemelli Cersei e Jamie, incestuosi e cinici manipolatori, e Tyrion, nano dalla nascita ma dotato di notevole arguzia, spiccato senso dell’ironia e grande cuore. La famiglia Targaryen vede invece come unici membri i fratelli Daenerys e Viserys, figli di Aerys detto il “Re folle”. Nonostante i sette regni -all’inizio della saga- siano governati da Robert Baratheon, marito di Cersei Lannister, è Daenerys l’unica vera erede di diritto al trono. Infatti il Re Folle, suo padre, governava i regni prima della Battaglia del Tridente, che ne aveva causato la disfatta, e se non fosse stato ucciso da Jamie Lannister (allora membro della Guardia Reale) avrebbe nominato lei regina. 

Il personaggio di Daenerys è forse il più interessante di tutta la saga, o almeno uno dei migliori: subisce infatti un profondo mutamento rispetto all’inizio, quando è solo una ragazzina spaurita data in moglie a un uomo “selvaggio”, il re dei Dothraki Kahl Drogo. Nella quarta stagione è ormai una donna regale, forte, coraggiosa, una vera guerriera sanguinaria e senza paura. Se non è un cambiamento radicale questo…! 

A farmi innamorare di questa serie, seppure più “a rilento” rispetto al solito, è stata in primis la trama. Man mano che si va avanti, i temi si fanno più intriganti, i personaggi acquistano forma e carattere. Ho ammirato molto la cura nella ricostruzione (nonostante alcune licenze, perché comunque non si tratta della trasposizione di un romanzo storico), le ambientazioni, gli effetti speciali mai pacchiani, i costumi splendidi degli attori. Ma più di ogni altra cosa, ho adorato le interpretazioni. Prima fra tutte, quella di Peter Dincklage nei panni di Tyrion Lannister, davvero pazzesco sotto tutti i punti di vista. Espressivo, naturale, spontaneamente ironico, piacione. Un personaggio che colpisce dalle prime scene. Straordinari anche l’attrice inglese Lena Headey nei panni della perfida Cersei, Charles Dance in quelli del crudele Tywin ed Emilia Clarke, perfetta come Daenerys Targaryen, intensa e luminosa. E’ comunque difficile per non dire impossibile stilare una classifica di preferenza, perché il cast della serie è davvero tutto incredibile. Anche i più giovani come Maisie Williams, che interpreta la piccola Arya Stark, sono sensazionali. 

Per alcuni, una pecca della serie è rappresentata dalle troppe morti che costellano la storia. Invece è proprio questa, secondo me, una delle chiavi del successo sia della fiction tv che della saga letteraria: non si è mai in grado di prevedere davvero il destino di nessuno dei protagonisti, e questo senso di impotenza tiene lo spettatore col fiato sospeso sino all’ultimo. In questo senso, Martin ci insegna che nemmeno la vita di uno dei personaggi principali di una storia è veramente indispensabile ai fini dell’intreccio o degli obiettivi che si intendono perseguire. Esattamente come avviene nel mondo reale, dopotutto. 

Anche nel caso di “Game of thrones”, devo rimarcare la bellezza della sigla. È un’opera d’arte, a livello melodico e grafico.

4) American Horror Story.

American.horror.story“Murder House”, “Asylum”, “Coven”, “Freak Show”: ecco i quattro universi di American Horror Story, prima serie antologica nella quale mi sia imbattuta. Creata da Ryan Murphy (già ideatore di “Glee” e “Nip/Tuck”), AHS racconta varie manifestazioni dell’orrore in America. La prima serie (andata in onda nel 2011) è tutta ambientata nella Murder House del titolo, una casa vittoriana popolata da spiriti, in cui sono avvenuti fatti di sangue e misteriose sparizioni. Protagonista di questa prima serie è la famiglia Harmon. Onnipresente in tutte le stagioni la mitica Jessica Lange, che in Murder House interpreta l’inquietante e invadente vicina Constance. Totalmente diversa la seconda stagione, ambientata questa volta non ai nostri giorni ma negli anni ’60, all’interno dell’Istituto Briarcliff, ospedale psichiatrico dove vengono internati i “rifiuti della società”, persone con gravi problemi mentali ma anche semplici asociali o devianti che per qualche motivo il mondo non vuole. “Asylum” è probabilmente la stagione più dura e horror di tutta la serie: l’ho trovata cruda in vari momenti e a un certo punto ho temuto di non riuscire a finirla. Superata una certa soglia diventa più semplice da seguire, ma ammetto che la scena in cui il serial killer “Bloody Face” si rivela a una delle sue vittime è stata abbastanza traumatica. In questo senso, devo esaltare le performance di Zachary Quinto e Sarah Paulson che, assieme alla Lange (una suora ben poco religiosa) e a James Cromwell sono i migliori di questo secondo capitolo. (Piccola nota per i più cinefili: eh sì, avete letto bene! James Cromwell, il fattore Hoggett di “Babe-Maialino coraggioso!) Tra l’altro, l’orrore presente in Asylum è molto più concreto e “umano” rispetto a Murder House, dove a dominare era il paranormale: nell’ospedale psichiatrico troviamo anche l’ex medico nazista ossessionato dagli esperimenti sugli umani! Cosa può esserci di più terrificante? Forse il diavolo, e troviamo anche quello (con tanto di esorcismi vari e possessioni). Unica nota dolente e deludente di “Asylum” è il finale, che sembra appiccicato così giusto per tappare un buco. american_horror_story_10-171L’ennesima dimostrazione che il troppo stroppia. “Coven” è invece il titolo molto invitante ed evocativo della terza stagione, per adesso la mia preferita. Ambientata in una scuola di stregoneria a New Orleans, segue il percorso umano e “magico” di un gruppo di giovani streghe. La stabilità della congrega è minacciata da forze oscure e chi pratica la magia è in pericolo di estinzione: è necessario che una nuova suprema, più forte e potente, risolva la situazione. Incantesimi vodoo, creature fantastiche, divinità pagane, zombie e roghi: ecco gli ingredienti -forse un po’ furbi ma ben amalgamati- di “Coven”. Tutt’altra storia quella raccontata dalla quarta stagione, “Freak Show”, in onda proprio in questi giorni negli USA su FX. Come il titolo annuncia, questo capitolo di AHS è tutto incentrato sui cosiddetti “freaks”, i “diversi”, e sullo show di fenomeni da baraccone della città di Jupiter. Diretto da Elsa Mars, diva mancata ormai non più giovane, il “freak show” propone spettacoli che vorrebbero essere divertenti e originali ma che in realtà, data la scarsa abilità organizzativa di Elsa, si rivelano spesso veri e propri fallimenti. L’arrivo di  nuovi freaks porterà una ventata di novità e qualche possibilità in più per lo show.coven Storia parallela, quella dello spaventoso clown Twisty, che gira per Jupiter e per le sue campagne come uno zombie, pronto a rapire o uccidere chiunque incontra. La serie promette bene, e le interpretazioni mi stanno iniziando a coinvolgere. In particolare, sta scattando il colpo di fulmine per Kathy Bates, che in questa serie secondo me toccherà l’apice.

American Horror Story è senza dubbio uno dei più originali prodotti della tv americana. Considero questa serie come una sorta di “educazione” agli horror, che non traumatizza quanto i film del genere ma abitua la mente a questa dimensione. Le trame dei diversi capitoli sono molto ben scritte, e si articolano secondo una successione di eventi tutto sommato imprevedibile. Gli attori hanno saputo interpretare al meglio le intenzioni degli sceneggiatori, in particolare Jessica Lange, che ha ridato linfa vitale alla sua carriera, negli ultimi tempi un po’ in discesa, riconfermandosi come un’artista dotatissima.

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Freak Show

A conclusione di questo mio excursus nel mondo delle serie tv, mi sembra giusto ricordare altre tre serie più leggere, ma che per me hanno rappresentato qualcosa.

10409047_353572958153939_7160718083096743147_nInizio da uno dei più grandi successi della ABC, andato in onda dal 2004 al 2012: “Desperate Housewives-I segreti di Wisteria Lane.” Tutto quello che immaginavo su questa serie era sostanzialmente sbagliato: non è una banale fiction pseudo femminista, non è una baggianata comico/demenziale. È una commedia nera ottimamente costruita e interpretata, con trame che si intrecciano a regola d’arte e vicende che non annoiano mai. Tutto si gioca sullo stereotipo della vita nei quartieri residenziali della provincia tipo americana, dove l’ipocrisia regna sovrana e c’è una parvenza di tranquillità che cela impensati segreti (anche sanguinosi). Protagoniste indiscusse delle storie di Wisteria Lane, quartiere fittizio della immaginaria città di Fairview, sono quattro amiche, Susan, Lynette, Bree e Gabrielle. Tutto ha inizio dal suicidio di Mary Alice, cara amica delle quattro, che in un certo senso risveglia il torpore della quotidianità e rianima le vite delle protagoniste. Se nella prima serie tutto ruota attorno al misterioso suicidio che ha sconvolto Fairview, le serie successive non sono certo meno coinvolgenti. Tra sparizioni, omicidi involontari e premeditati, personaggi ambigui, vicini sospetti, amori imprevisti e i problemi quotidiani non indifferenti, le quattro amiche avranno ben pochi momenti di vera tranquillità per godersi il poker del dopocena e i loro ormai famosi cocktail.

Da dieci e lode le interpretazioni delle protagoniste. Volete una vera lezione di recitazione? Guardate le prove attoriali di Teri Hatcher, Felicity Huffman, Marcia Cross ed Eva Longoria. Sono semplicemente perfette e perfettamente in sintonia l’una con l’altra. Un altro elemento che ho adorato di questa serie, che definirei la ciliegina sulla torta, è la sigla: composta da Danny Elfmann e che ironizza sull’arte antica e moderna in chiave “rapporto uomo/donna”. Geniale.

Chiudo questo post con due sitcom. È vero, non si tratta propriamente di fiction, ma meritano lo stesso perché hanno entrambe rivoluzionato il senso di “serie comica”. Mi riferisco a “How I Met Your Mother?” e a “The Big Bang Theory”.


HOW I MET YOUR MOTHERHIMYM è stata creata da Craig Thomas e Carter Bays e la prima puntata è andata in onda nel 2005, mentre l’ultima quest’anno. A grandi linee, le vicende raccontate vedono come protagonisti cinque amici, Ted, Lily, Marshall, Barney e Robin. Ognuno di loro ha le sue ben determinate caratteristiche e il suo modo di approcciarsi alla vita. Ted è il tipico ragazzo di indole gentile e bonaria, studioso e timido, ma soprattutto inguaribile sognatore. Lily e Marshall, che stanno insieme dal college, sono i più cari amici di Ted e cercano a loro modo di consigliarlo nei momenti di insicurezza (cioè sempre). Marshall è infantile e mammone, ma dal cuore d’oro. Lily è dolce, buffa e decisionista. Barney è invece il dongiovanni del gruppo: dopo una vita da sfigato, si è trasformato in un conquistatore. Vanta una lista infinita di flirt e scappatelle, fatto del quale si compiace sempre. Robin è il primo vero amore di Ted, una bellissima giornalista canadese un po’ maschiaccio e a momenti simpaticamente goffa. A raccontare le storie di tutti loro è un Ted ormai adulto, che risponde alle domande dei suoi due figli adolescenti. La conclusione del racconto dovrà portare alla risposta per la domanda che da il nome alla serie.  

Le vicissitudini del gruppo sono tutte strettamente connesse, anche quando non sembra. E’ preferibile quindi seguire la serie dall’inizio alla fine, così da non perdere neanche un elemento dell’intricato puzzle. Quello che più ho amato di HIMYM è l’esilarante comicità, e la sceneggiatura brillante come poche. Più che una serie tv è un fenomeno culturale della nostra epoca, la storia delle generazioni del 2000 raccontata in chiave ironica.


big_bang_6.2“The Big Bang Theory” è ancora diversa. Protagonisti della sitcom sono sempre un gruppo di cinque amici, i quattro “nerd” genialoidi Sheldon, Leonard, Raji e Howard e la bionda cameriera della “Fabbrica del Cheesecake” Penny. A rendere esilarante questa serie sono soprattutto i dialoghi al vetriolo tra Sheldon, un fisico teorico quasi “inumano” per il suo modo di intendere (anzi di “non intendere”) i rapporti interpersonali e gli altri protagonisti. Nonostante questo, Sheldon non oscura la comicità degli altri personaggi e l’equilibrio risulta ben bilanciato. 

Personalmente, trovo brillante la sceneggiatura di The Big Bang Theory, perché frutto di infiniti studi su tutti i fronti: universo scientifico, letterario, fumettistico e cinematografico. E più degli altri, amo profondamente Sheldon e la sua misantropia. In effetti, lui non è un personaggio comico con intenzione, è semplicemente sé stesso senza censure. Non si vergogna di come è, di quello che pensa (anche se impopolare o addirittura infantile) e del suo modo d’agire. E’ una geniale beffa dello stereotipo dello scienziato che vive nel suo mondo, che non ha pulsioni verso gli altri individui, che pensa solo ed esclusivamente alla ricerca. Tutta la serie si basa, in sostanza, su stereotipi che in quanto tali vale la pena prendere in giro.  

Questo è davvero tutto. Ovviamente, il mio mondo delle fiction non è così ridotto ma ho cercato, comunque, di restituire un quadro il più possibile completo scegliendo quelle che considero, per ben determinate ragioni, le migliori espressioni della moderna cultura televisiva seriale, italiana e non.

La vera speranza è soprattutto che questi consigli possano servirvi in una scelta che è decisamente difficile al giorno d’oggi, con tutte le decine e decine di opzioni che abbiamo a disposizione.

Quindi, non posso che augurare buona visione a tutti voi, qualunque sia la serie nella quale deciderete di addentrarvi!

  

Always anti-selfie(mania).

Un motivo in più per rendere Kirsten Dunst ancora più simpatica ai miei occhi è questo corto, realizzato da Vs.Magazine.

Si intitola Aspirational, e denuncia ironicamente quanto ormai sia dilagato il morbo dei “selfie” (da Wikipedia: Il termine selfie, derivato dalla lingua inglese, è una forma di autoritratto fotografico realizzata principalmente attraverso uno smartphone, un tablet o una fotocamera digitale, puntando verso sé stessi o verso uno specchio l’apparecchio e scattando, similmente a quanto avviene con la tecnica dell’autoscatto che utilizza un dispositivo che permette lo scatto ritardato di una fotografia.I selfie vengono realizzati comunemente per poter essere condivisi su social network).

Il problema secondo me non è il possedere un telefono moderno con tutti gli optional. Il problema non sono neanche i “selfie” o come da sempre li abbiamo chiamati “gli autoscatti”: da quando esiste la macchina fotografica, esistono anche loro. Il vero problema sta nell’eccesso.

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Stanley Kubrick
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Ringo Starr

Io sono la prima a dire che fare foto è un modo semplice, immediato nonché potenzialmente artistico/poetico per avere memoria delle nostre esperienze. Ma da qui a trasformare ogni singola situazione in occasione per scattare “selfie” e condividerli sui social network, dovrebbe passarcene. Estremizzando -ma anche no- gli ideatori del corto hanno comunicato quanto un momento memorabile rischi di essere paradossalmente rovinato dalla necessità compulsiva di scattare una foto, da questo eccesso di “far sapere agli altri” quello che combiniamo. Quando la Dunst chiede alle ragazze: “Volete farmi qualche domanda, chiedermi qualcosa..?”, e loro tra le mille opzioni che hanno scelgono il terrificante:”Mi tagghi?”, il brivido viene.

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Tutti gli occhi di Hitchcock.

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Meno male che Kogonada continua a fare video.

Dopo la simmetria di Wes Anderson e la prospettiva di Stanley Kubrick, “Gli occhi di Hitchcock” cade a fagiolo. Lo “sguardo” dei protagonisti, spesso terrificato o allucinato, che lascia senza fiato e fa temere il peggio…

Dicevo che questo video cade a fagiolo perché ci tenevo tanto a sponsorizzare la mostra fotografica “Alfred Hitchcock nei film della Universal” (http://www.comune.parma.it/notizie/news/CULTURA/2014-07-16/Alfred-Hitchcock-nei-film-della-Universal-Pictures-1.aspx), che si terrà al Palazzo del Governatore di Parma fino al 9 novembre -è partita a luglio-. L’esposizione è stata pensata per celebrare i 50 anni di “Marnie”, e comprende ben 70 fotografie e vari contenuti speciali. E in più, ci sarà una sala intera dedicata a un aspetto primario dei film di Hitch: la musica. Io con la testa sono già lì, ma se potrò esserci anche fisicamente non mancherò di aggiornare il blog.

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Marnie (1964)

Se c’è una cosa per cui ringrazierò sempre mia mamma, una delle tante, è quella di avermi fatto amare Alfred Hitchcock sin da quando ero bambina. Normalmente è un regista che si scopre col tempo, io invece ci sono cresciuta quando gli altri venivano su beatamente con Sailor Moon. Non nego che mi sarei risparmiata qualche paranoia in meno ma…sì, non ho rimpianti.

Bella Hitch!

Riflessione sui bravi attori.

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Dead Man Walking (1995)

Il regista ed esperto di cinema Marcus Geduld ha scritto l’articolo “Da cosa si riconosce un bravo attore?”. Mi è piaciuto. Le riflessioni che contiene possono essere opinabili, ma sono molto lucide e suffragate da esempi concreti. In questo articolo cercherò di seguire un po’ la stessa linea di pensiero e di stesura.

Non esistono criteri oggettivi per stabilire se un attore è bravo o meno, dice Geduld. È sempre e solo questione di gusti personali, tutto dipende dalla nostra sensibilità e (aggiungo io) anche dal nostro “background” cinematografico, ovvero dai film che abbiamo visto nel corso di tutta la nostra esistenza, quei film che ci hanno “formati”.

Partendo dunque da questo presupposto, Geduld elenca cinque punti base per definire un bravo attore:

1) Deve provare quello che prova il personaggio.

2) Deve saper sorprendere.

3) Deve essere vulnerabile.

4) Deve saper ascoltare.

5) Deve sapersi “suonare” come se fosse uno strumento.

In merito al primo punto, è indubbio che se un attore non crede in quello che fa non potrà convincere nessuno, nemmeno sé stesso. Geduld cita come esempio negativo Keanu Reeves, che a suo avviso non riesce ad essere mai “dentro” un personaggio. Geduld sostiene che è spesso facile confondere l’attore col film in cui recita, ergo Keanu Reeves è un bravo attore perché ha recitato in “Matrix” o nel “Dracula” di Coppola. A me invece viene in mente Monica Bellucci. Al contrario di Geduld,mi chiedo: un film può essere considerato un capolavoro se i protagonisti non danno prova di grandi qualità attoriali? Per il regista la risposta è sicura, per me la domanda resta aperta.

Anche la sorpresa, come l’emotività, è un elemento che l’attore più dotato deve saper tirar fuori. Esempio perfetto: Robin Williams. Lui sapeva sorprendere in tutti i suoi ruoli, e soprattutto nel capolavoro di Gilliam “La leggenda del Re Pescatore”. Mi stupisce che Geduld nel suo articolo non lo citi neanche una volta. Son citati invece Glenn Close, Jack Nicholson, Al Pacino, Gary Oldman come esempi di attori che sanno sorprendere perché da un momento all’altro potrebbero agire in un modo (spaventoso) che non puoi prevedere. A questa lista aggiungerei anche Gloria Swanson ( in “Viale del tramonto), Javier Bardem (in “Non è un paese per vecchi”), Robert De Niro (in “Cape Fear”), Christian Bale (in “American Psycho”), Daniel Day Lewis (in “Gangs of New York” e “Il petroliere”).

Un bravo attore deve saper essere vulnerabile. Io sono rimasta molto colpita -recentemente- dall’interpretazione di Shelley Winters in “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton. Una donna che dimentica i propri figli, che arriva a umiliarsi fisicamente e psicologicamente, che cede al fanatismo religioso e rinuncia alla sua personalità solo per sentirsi degna dell’uomo (gravemente disturbato) che l’ha sposata. E cito ancora ancora una volta Robin Williams, attore che ha saputo mostrare senza vergogna la sua vulnerabilità. Penso in particolare a un suo film non molto conosciuto ma che andrebbe rivalutato: “The final cut”, uscito nel 2004. C’è una scena in cui il protagonista (Williams) viene picchiato dalla ragazza che ama (Mira Sorvino) e lui piange dal dolore per averla ferita a tal punto. È rarissimo vedere in un film una donna che picchia un uomo, soprattutto un uomo con l’aria bonaria di Robin Williams. Ecco, quella scena e soprattutto le lacrime di lui mi hanno fatto capire quanto ad alcuni attori venga spontaneo comunicare una profonda vulnerabilità.

Un aspetto sul quale forse non avevo mai davvero riflettuto era la capacità di saper ascoltare. In realtà, mi piace osservare le facce dell’attore che in un determinato momento non è al centro dell’attenzione, per capire se effettivamente è “dentro” la scena. E non tutti comunicano un senso di coinvolgimento, nemmeno nei dialoghi di coppia, ma altri sono invece ascoltatori nati. Un esempio che mi viene in mente è Susan Sarandon. In vari film ho apprezzato la sua aria materna e rassicurante, che ispira comprensione. In questa intensa scena di “Dead man walking” Susan comunica molto anche quando non dice assolutamente nulla.

L’ultimo punto mi ha fatto un po’ sorridere. In effetti, il corpo di un attore è IL suo strumento, come lo è il violino per un violinista o la voce per un cantante. Se un attore non sa comunicare anche attraverso il proprio corpo rimane un artista “a metà”. Di norma, i grandi attori sanno anche usare bene il loro corpo. E anche io come Geduld non mi riferisco soltanto alle scene di sesso, o a chi si denuda perché il copione lo richiede, o a chi perde o acquista peso. Mi riferisco anche, soprattutto, all’attore che sa comunicare attraverso semplici gesti o espressioni facciali. In pratica, parlo della comunicazione non verbale. Questo discorso si riallaccia ovviamente con ciò che scrivevo prima, sulle reazioni che un bravo attore sa far trasparire anche quando non parla. Geduld cita come grande comunicatore su tutti i livelli James Gandolfini. A me invece viene in mente l’attrice Octavia Spencer, premio Oscar 2012 per “The Help”. Anche lei -come Gandolfini- non è bella e non è armoniosa. Eppure quando recita sa trasmettere una carica emotiva e fisica notevole. Basta guardarla in questa clip da “The Help”.

Un altro attore che sa sicuramente “suonare” alla grande il proprio corpo è Jim Carrey, e questa scena da “Yes man” lo dimostra.

A conclusione del suo interessante articolo, Marcus Geduld fa una breve riflessione su alcuni attori (lui cita Tom Cruise), che spesso vengono disprezzati per la loro vita privata perché non abbastanza bravi in senso artistico da farla dimenticare.

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Mephisto (1984)

Non so se sia un bene dimenticare quanto un attore possa essere umanamente squallido a favore della sua grande bravura artistica, ma questo fa capire quanto sia potente il mezzo della recitazione se lo si sa usare. Basti pensare al teatrante Hendrik Hoefgen interpretato da Klaus Maria Brandauer in “Mephisto”. Un essere spregevole e ignobile, senza alcun valore o ideale all’infuori del proprio bene. Ma, innegabilmente, un eccellente interprete.

La mia passione più grande.

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Notorius (1946)

Il cinema.

Se potessi vivere solo pensandoci e parlandone sarei forse la persona più felice al mondo. Però, ammetto che anche il fatto di considerare il cinema come “valvola di sfogo”, come una sorta di fuga dalla quotidianità e dalla realtà, mi permette di goderne di più.

Ovviamente, non sono solo un’appassionata di cinema perché, in effetti, chi ama il cinema non può essere insensibile di fronte alla pittura, alla fotografia, alla letteratura. Sono tutte arti che partecipano al linguaggio cinematografico.

In più, io amo molto anche la scrittura. È per questo amore che ho -finalmente!- deciso di aprire il blog. Unire scrittura e cinema mi sembra il miglior modo per esprimere due grandi passioni, nella più totale libertà.

Ho scelto di chiamare questo spazio “Cinematic” perché è un blog correlato al cinema che tratterà di cinema, però nel senso più vasto possibile. Insomma, non pubblicherò solo recensioni di film ma andrò oltre, in quella che spero sarà un’analisi un po’ più profonda della cosiddetta “settima arte”. E non escludo che potranno esserci mie riflessioni su temi apparentemente lontani (ma solo apparentemente!) dal mondo del cinema.

Il sottotitolo del blog, “food and movies”, che forse non sono la prima usare, l’ho scelto perché rappresenta un po’ l’essenza della vita di una persona che ha una passione vera. “Cibo e…”, mi basta solo questo per vivere.

Più o meno penso di aver detto tutto.

Aggiungo giusto una breve presentazione personale: mi chiamo Alice, ho 26 anni, mi sto specializzando in Lingue e Letterature Moderne Europee e Americane, ho un passato da giornalista in piccole esperienze editoriali di provincia e dal 2010 sono pubblicista nell’ordine dei giornalisti.

Adesso ho veramente detto tutto.

Buona lettura e…bring the cinema with you!